Gen 27, 2017 | Età evolutiva, Scuola
La figura dell’insegnante ha da sempre ricoperto un ruolo di particolare importanza sia per l’insegnamento, in quanto tale, sia per il ruolo educativo.
Nel corso degli anni la scuola è stata, ed è ancora oggi, protagonista di molteplici cambiamenti alcuni anche incomprensibili.
Ovviamente quando si parla di benessere degli studenti non si può non fare riferimento anche al benessere dei docenti, condizione indispensabile per un effettivo coinvolgimento dei giovani in formazione nel loro personale percorso di crescita culturale e umana.
L’insegnate, che opera nell’ambito delle istituzioni educative, è un “lavoratore della conoscenza”, appartenente ad uno specifico progetto educativo. Svolgono un importante ruolo in cui l’educazione viene considerata come un processo continuo volto a promuovere l’autonomia e la consapevolezza nelle scelte legate alla salute e al benessere e si basa proprio sul protagonismo dei docenti che trasmettono tali parametri.
Soprattutto oggi il compito primario della scuola mira a prevenire, combattere il disagio, la demotivazione, la dispersione scolastica, la devianza per consentire agli studenti livelli il più possibile elevati di benessere psicofisico, di motivazione ad apprendere. Quotidianamente, attraverso la scuola, gli alunni hanno la possibilità di cogliere straordinarie opportunità: crescita intellettuale, acquisizione di responsabilità, maturazione; ma allo stesso tempo si misurano anche con le difficoltà, gli errori, la fatica. Di fondamentale importanza sono le relazioni, il clima scolastico che possono influenzare la qualità di vita dello studente.
Nelle società post-industriali, e soprattutto nei contesti urbani, l’organizzazione della vita si è profondamente modificata rispetto al passato. La quantità di mansioni e compiti che è necessario assolvere quotidianamente continua ad incrementarsi. Lo sviluppo tecnologico ha favorito l’accelerazione delle comunicazioni, ma ciò implica anche maggiori aspettative in termini di rapidità ed efficienza delle prestazioni.
Le ricerche su stress e burnout lavorativi sono in aumento, e non senza ragione. La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni , qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Numerosi studi hanno mostrato in particolare come tra le categorie professionali particolarmente esposte a burnout vi siano gli insegnanti, a qualsiasi ordine di scuola appartengano (Byrne, 1991; Guglielmi e Tatrow, 1998). Lo stress da lavoro esprime il disagio di chi, dopo aver investito molto in un’attività lavorativa, si sente demotivato, scoraggiato, incapace di agire, privo di entusiasmo, assume un atteggiamento difensivo, prova angoscia e sofferenza fino a perdere l’efficienza sul piano professionale.
L’insegnante è chiamato a svolgere molteplici ruoli all’interno dell’organizzazione scolastica. È possibile far rientrare il lavoro dell’insegnamento tra le professioni di aiuto per gli altri. Insegnare significa dedicarsi alla crescita intellettiva, sociale, educativa e umana dei giovani.
L’insegnante, con il suo bagaglio di personalità, di motivazioni, di obiettivi, di esperienze, di competenze, ecc., è costretto a lavorare in una struttura organizzativa, la scuola, estremamente complessa, con il suo bagaglio di regole, obiettivi e strumenti. A ciò si aggiunga che la scuola, negli ultimi anni, sta subendo una serie interminabile di riforme che dovrebbero ridefinire regole, obiettivi e strumenti. Possiamo immaginare quale possa essere la condizione dell’insegnante nella scuola, a quali stress, frustrazioni, ansie, ma anche a quali gratificazioni e stimoli possa essere sottoposto. Nel corso degli anni il ruolo dell’insegnante ha subito delle modifiche: all’insegnante sono richieste nuove competenze (sociali, psicologiche, relazionali e gestionali) per le quali non solo non ha una formazione adeguata, ma non fanno altro che sovraccaricarlo di lavoro e confonderlo nei ruoli.
Un ruolo fondamentale è svolto dall’opinione pubblica la quale preme sulla scuola affinché diventi capace di rispondere alle richieste del mondo del lavoro, vuole insegnanti sempre più qualificati. Alle eccessive pressioni esterne, cui è soggetto l’insegnante, un ulteriore fattore di stress è la difficoltà relazionale. L’insegnante deve, prima di tutto, saper comunicare e relazionarsi con gli studenti e con le loro famiglie, ma anche con i colleghi, con i superiori e con tutte quelle figure professionali che sono in stretto contatto con il mondo della scuola.
La categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress di tipo professionale. L’origine dello stress può essere ricondotta ad alcuni fattori riguardanti: la particolarità della professione; la trasformazione della società verso uno stile di vita sempre più multietnico e multiculturale; il continuo evolversi della percezione dei valori sociali; l’evoluzione scientifica; il susseguirsi continuo di riforme; la maggior partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente livellamento dei ruoli con i docenti. Altre cause che portano alla sindrome del burnout negli insegnanti possono essere:
Rapporto con studenti / genitori
Classi numerose
Conflittualità tra colleghi
Costante necessità di aggiornamenti
Problemi adolescenziali
Retribuzione insoddisfacente
Scarso riconoscimento sociale della professione
Preparazione pedagogica inadeguata.
Nonostante la molteplicità di fattori scatenanti il burnout, l’individuo, in questo caso l’insegnate, possiede delle specifiche abilità di coping che possono contribuire al superamento di tale situazione di malessere. Possiamo distinguere:
– strategie dirette, che mirano ad affrontare la situazione in modo positivo
– strategie diversive, tese a schivare l’evento
– strategie di fuga o di abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione stressogena
– strategie palliative cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.
La sindrome del burnout appare seria e insidiosa ma può essere combattuta soprattutto se si tengono in considerazione i sintomi che la contraddistinguono. Si rende necessario all’apparire dei primi segnali di stress il ricorrere ad un supporto psicologico o ad un aiuto esterno da parte di esperti. Il burnout può avere gravi ripercussioni sull’agire del singolo individuo, a volte i sintomi che lo compongono possono presentarsi in maniera cronica e duratura.
Gen 11, 2017 | Genitorialità, Sostegno
Nella prassi educativa corrente si sta perdendo di vista il significato del rimprovero. A causa, anche, della visione sempre meno tradizionale della famiglia che si sta cercando di accantonare. Può essere sicuramente vista come qualcosa di positivo, ma non sempre in maniera univoca. Pensate che esercitare il vostro potere di adulti nei confronti dei figli, specie se piccolissimi, sarebbe un abuso?
Ebbene, vi sbagliate. Prendete esempio dai bambini, anche dai primi mesi di vita hanno un’idea ben chiara del potere che hanno e dei metodi a loro disposizione per esercitarlo e, al contrario di voi, non si fanno scrupoli ad usarlo. Proprio questo potere è parte integrante della relazione genitori-figli e imparare a gestirlo diventa fondamentale. Un neonato può esprimere e ottenere ciò che desidera, mostra cioè di possedere la capacità di fare o ottenere qualcosa. Contrariamente alla mamma, però, non ha il potere di prendere decisioni e di metterle in atto. Quella rimane prerogativa del genitore, se ne è in grado, ovviamente.
Non abbiate paura di usare il vostro potere, ma con misura e consapevolezza. È perfino lecito, in un momento di furore, allungare uno sculaccione, ma senza arrivare a questo ci sono molti modi con cui porre limiti al bambino, limiti di cui vi sarà grato perché ne ha bisogno per crescere. Il modo più classico è quello del rimprovero. Il rimprovero è una comunicazione regolativa, non incoraggiante. Deve essere espresso senza enfasi e senza tensione.
Occorre un tono fermo, deciso, autorevole che si esprime in una comunicazione concisa, forte e centrata sui fatti concreti. Al rimprovero deve seguire un breve silenzio, in modo che il messaggio venga assorbito. Ma se da un lato l’educazione di un bambino dipende dalla correzione di comportamenti negativi, dall’altro entrano in gioco aspetti che incoraggiano il comportamento positivo.
Sarà successo anche a voi, da bambini, che vi abbiano detto “sei stato bravo” e di aver provato una sensazione piacevole. Ora, è bene tenere presente che questo è un sentimento che alberga naturalmente nell’animo di un bambino prima ancora che ne afferri il significato logico. Malgrado l’istinto lo spinga a cercare soddisfazione immediata dei suoi impulsi, il bambino desidera comunque accontentare i genitori, vederli sorridere di compiacimento per ciò che ha fatto, felici di lui.
Tuttavia bisogna sapersi contenere, ovvero non cadere nella tentazione di lodarli sempre, minando la loro autostima invece che accrescerla. La lode rischia di trasmettere ai bambini l’idea che siano amati solo quando si comportano in modo consono alle aspettative dei grandi. Può scalfire le motivazioni personali, perché il fare bene una cosa smette di essere un piacere e una soddisfazione di per sé, ma solo un modo per essere apprezzati dall’adulto, col rischio di innescare una sorta di dipendenza dall’approvazione di mamma o papà. Oltre a far sentire i più piccoli sempre sotto giudizio, tanto da renderli insicuri nell’esprimere le proprie idee e scoraggiarli nel mettersi alla prova, perché preoccupati di essere all’altezza della situazione.
Quello del genitore non è, di certo, un lavoro facile, soprattutto se lo si fa per la prima volta. Ma non dovete temere di essere inadeguati, bisogna semplicemente trovare un equilibrio, senza pensarci troppo, in modo naturale e conseguente. E se un giorno vi rendeste conto di aver fatto degli errori, di essere stati troppo severi o, al contrario, troppo transigenti, ricordatevi sempre che nessuno è perfetto, così come non lo eravate voi non lo saranno loro.
E così mentre loro cresceranno imparando dagli errori propri e altrui, voi vi renderete conto che in fondo, i vostri figli, non sono poi così indifesi.
Gen 11, 2017 | Adolescenza, Genitorialità, Scuola
Il conflitto può essere definito come “una situazione in cui forze, di valore approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente sull’individuo”; o anche “la reciproca interferenza di reazioni incompatibili.”
Il conflitto può far riferimento alla presenza di tendenze coesistenti rivolte ad almeno due forme differenti di comportamento. È possibile distinguere le tendenze appetitive o attrazione ovvero le tendenze rivolte al raggiungimento di un obiettivo, e le tendenze avversative o avversione ovvero quelle rivolte ad evitare eventi indesiderabili. Tali teorie fanno parte della teoria del campo di Lewin.
La teoria del campo applica al comportamento interpersonale e al concetto di personalità i principi gestaltici della percezione. Il concetto di “campo” è inteso quale totalità di fenomeni psicologici che agiscono in reciproca interdipendenza di influssi; l’individui dunque si colloca al centro di un campo di forza ambientali che li modificano e che, grazie a lui, si modificano. Tale teoria ha trovato applicazione proprio nella psicologia sociale, riuscendo a offrire una fortunata ed esauriente spiegazione sulle dinamiche che intercorrono all’interno di un gruppo.
Per Lewin si ha conflitto quando una persona è costretta a scegliere fra obiettivi o corsi d’azione incompatibili, contraddittori o mutatamene esclusivi cioè quando l’azione necessaria a raggiungere l’uno impedisce automaticamente alla persona di raggiungere l’altro.“Una situazione in cui le forze di valore approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente sull’individuo” .
Secondo la teoria del campo si prospettano 4 possibilità di conflitto:
- Conflitto fra due tendenze appetitive in cui il soggetto di fronte a due obiettivi raggiungibili deve necessariamente sceglierne uno scartando l’altro. Non viene considerato un vero e proprio conflitto, ma piuttosto una condizione di scelta.
- Conflitto fra una tendenza appetitiva e una tendenza avversativa in cui si contrappongono desideri razionali e ostacoli emotivi quindi alcuni elementi spingono in una direzione e altri in quella opposta. Le decisioni risultano difficili poiché si innesca un meccanismo di attrazione e repulsione con momenti alterni di prevalenza dell’uno rispetto all’altro.
- Conflitto fra due tendenze avversative in cui il soggetto è posto di fronte a una scelta riguardo due opportunità negative. Si ha la tendenza a scegliere l’opportunità meno scoraggiante.
- Conflitto composto fra più tendenze appetitive ed avversative(doppia situazione di attrazione – avversione) che si verifica in molte situazioni della vita di tutti i giorni, è il caso in cui oggetti o situazioni evocano contemporaneamente situazioni di avversione e attrazione. Una classica situazione è quella in cui ad un individuo che svolge una determinata attività professionale viene proposta un’altra attività. Entrambe le professioni hanno caratteristiche sia attraenti che negative, se le caratteristiche attraenti o quelle repellenti di ciascun lavoro sono uguali vi sarà una situazione di conflitto.
Spesso a suscitare il conflitto non è un oggetto o un’attività, quanto un modello di comportamento, che si sintetizza, in questo caso, nel concetto di “ruolo”.
Il conflitto nasce quando un individuo viene ad occupare, simultaneamente, due posizioni differenti, che prescrivono atteggiamenti diversi, oppure quando le attese di persone o gruppi diversi, relativi ad una stessa posizione, discordano nettamente.
L’adolescenza è l’es. tipico di conflitto, in quanto il soggetto è già uscito dall’infanzia e non ha ancora raggiunto l’età adulta, si sente attirato dall’idea di essere un adulto indipendente e carico di prestigio, ma anche dal desiderio di restare legato al ruolo del bambino, protetto e sicuro.
Se una persona appartiene allo stesso tempo a due gruppi sociali diversi della stessa categoria (età, nazionalità, razza), gli si presenteranno, in ogni situazione, due tipi diversi di comportamento suggeriti da ognuno dei due gruppi ed il soggetto di troverà in una situazione permanente di conflitto. Questa situazione può essere grave perché non si tratta di un conflitto casuale e passeggero, ma costante per l’individuo, il quale ha interiorizzato due serie di ruoli paralleli per ogni situazione; oppure perché entrambi questi gruppi, di cui fa parte, hanno una grande influenza sulla formazione della personalità.
Ci sono varie possibilità di uscire da questo conflitto:
- con un’intensa valorizzazione della cultura d’origine, che si manifesta con nazionalismo e rifiuto di ogni nuovo ruolo, dovuto spesso ad un’incapacità di adattamento al nuovo gruppo;
- con l’assunzione di un ruolo intermedio che permetta di conciliare le due culture;
- con un buon adattamento alla nuova cultura che va di pari passo con il rifiuto del gruppo d’origine.
L’individuo si perderebbe tra questi conflitti se non avesse, a sua disposizione, dei meccanismi adeguati che gli permettano di risolverli.
A livello personale operano numerosi meccanismi:
- la separazione, che consiste nel tentare di separare, sia nel tempo sia nello spazio, i due ruoli in conflitto, ad es. evitando la sovrapposizione dei ruoli, assumendoli nel tempo e negli spazi separati, il conflitto viene risolto distaccandosi da un ruolo ritenuto riprovevole, quello ritenuto meno importante, ma questa decisione di mettere da parte un ruolo si rivela dannosa per l’individuo, potendo generare dei forti sentimenti di frustrazione;
- il compromesso, consistente nel rimandare l’azione ed attendere che uno dei due gruppi o entrambi attenuino le loro esigenze, oppure ristrutturare il ruolo stesso al fine di adattare questa nuova definizione ad ognuno dei due gruppi, infine un’altra strategia è quella di utilizzare un ruolo contro l’altro, indicando ad ogni gruppo le esigenze incompatibili che gli vengono imposte dall’altro in modo da spingere le due parti ad attenuare le proprie richieste;
- la fuga, consistente nell’uscita del soggetto da entrambi i ruoli, come la fuga dal campo, in cui l’individuo va in un altro ambiente sociale e si allontana dai gruppi che generano conflitto, la fuga nella malattia, che avviene inconsciamente
Molti psicologi sociali ritengono che le persone abbiano un bisogno fondamentale di congruenza cognitiva, ovvero di coerenza logica tra le proprie convinzioni ed idee. Secondo Festinger (1957) quando un individuo ha due rappresentazioni cognitive (idee sul mondo) coerenti l’una con l’altra, egli si trova in uno stato interno di equilibrio, che l’autore chiama di consonanza.
Quando invece due o più rappresentazioni cognitive non sono tra loro coerenti, perché una implica l’opposto dell’altra, si produce dissonanza. Festinger sosteneva che esiste una motivazione fondamentale che spinge l’individuo a ridurre gli stati di dissonanza, che sarebbero per natura destabilizzanti.
Più la rappresentazione cognitiva è importante e più la dissonanza è destabilizzante. E più è critica la dissonanza più è forte la motivazione dell’individuo a ridurla. Quello della dissonanza cognitiva è uno dei concetti elaborato da Festinger definendola come la condizione di individui le cui credenze, nozioni, opinioni contrastano tra loro (dissonanza per “incoerenze logica”), o con le tendenze del comportamento (“dissonanza per “l’esperienza passata”), o con l’ambiente in cui l’individuo si trova ad operare (dissonanza per “costumi culturali”).
Gen 10, 2017 | Adolescenza, Genitorialità, Scuola
Bullismo e baby gang: strategie di prevenzione nelle scuole.
Si manifestano nella scuola un numero crescente di comportamenti di aggressione con diverse modalità di espressione della violenza e differenti livelli di consapevolezza del fenomeno. Fenomeni preoccupanti, che investono i giovani nelle loro dinamiche personali e nella loro relazione con i compagni e con gli adulti docenti/genitori. Le cronache giudiziarie inducono a temere l’estendersi di una violenza più o meno “strisciante” nei confronti dei compagni e anche dei docenti nell’ambiente scolastico, fino ad arrivare a veri e propri casi di devianza delinquenziale.
Il termine “bullismo”, oggi largamente impiegato per definire i vari comportamenti di sopraffazione, soprattutto nell’ambito giovanile e adolescenziale, deriva da quello anglosassone bulling e sta ad indicare una specifica modalità di relazione tra due persone: “un soggetto più forte che si avvale della propria superiorità fisica per danneggiare un soggetto più debole”.
Il bullismo, quindi, indica un fenomeno complesso che include non solo il comportamento del persecutore, ma anche quello del perseguitato.
Le caratteristiche del bullismo possono essere così definite: il bullo prova soddisfazione nel far soffrire, fisicamente e psicologicamente, il suo bersaglio umano, anche se questo mostra chiaramente il suo profondo disagio o addirittura dolore fisico e interiore; il comportamento del bullo si protrae nel tempo e anche per questa ragione induce la sua vittima a vivere l’ambiente, spesso quello scolastico, come un luogo insicuro ed ostile. In genere il persecutore utilizza la sua maggiore età o la sua prestanza fisica come arma per farsi temere e, quindi, per rendere la vittima docile al comando; la vittima è un soggetto ipersensibile e si percepisce come vulnerabile ed impotente di fronte al suo persecutore, subendone passivamente e progressivamente le angherie più efferate; la vittima ha paura, inoltre, di raccontare quello che subisce perché teme ritorsioni e teme di non essere creduto; scivola così giorno dopo giorno nel buio della totale disistima verso se stesso, incapace di tagliare i lacci psicologici della sottomissione che ha ormai interiorizzato.
Non è sempre facile, però, riconoscere il bullismo. Se un compagno di classe attacca fisicamente e ripetutamente nel tempo la vittima o la insulta pesantemente e reiteratamente tanto da emarginarla, non possiamo certo credere che si tratti della normale conflittualità tra coetanei. In altri casi, invece, il confine è meno palese: il bullo, per costruire il suo distruttivo passatempo, può utilizzare strategie meno teatrali, ma ugualmente efficaci sottraendo o rovinando, per esempio, gli oggetti del perseguitato, diffondendo pettegolezzi o storie offensive nel suo conto con il preciso scopo di emarginarlo dal gruppo.
Le scuole elementari e le medie sono il regno più fecondo per questo fenomeno. Dalle ricerche effettuate si evince che il numero di bambini italiani coinvolti dal fenomeno è doppio rispetto ai loro coetanei europei. Se, infatti, si riscontra il 6% di bullismo in Finlandia, il 15% in Norvegia, il 12,5% in Giappone, il 20% in Canada, l’1,8% in Irlanda e il 15% in Spagna, nel nostro Paese la percentuale sale vertiginosamente: il 41% dei casi nelle scuole elementari, il 26% in quelle medie; in entrambi i contesti scolastici i maschi sono in gran parte responsabili del bullismo ai danno delle femmine (più del 60%), mentre la maggioranza dei maschi è stata perseguitata principalmente da coetanei dello stesso sesso (80%). In alcuni specifici contesti socio-culturali e le percentuali aumentano notevolmente. Nelle scuole elementari il 57,2% delle prepotenze fisiche e verbali avviene in classe o nei cortili dedicati alla ricreazione, nelle medie la percentuale si abbassa al 51,9%.
Il bullismo può essere messo in atto da un singolo individuo o da un gruppo (baby gang), e anche il bersaglio può essere un singolo individuo o un gruppo.
In Italia il problema dei gruppi adolescenti devianti è oggi particolarmente diffuso: basti pensare che nel 2000, secondo i dati dell’Osservatorio del mondo giovanile – Città di Torino, ben il 68,2% dei reati compiuti da minori è stato commesso insieme ad altri ragazzi. I reati attuati da gruppi di minorenni sono soprattutto il furto e il vandalismo, mentre quelli compiuti da minorenni in concorso con maggiorenni sono decisamente più gravi: rapina e spaccio di stupefacenti.
Abbastanza frequenti sono anche le denunce per reati contro l’ordine pubblico, commessi da gruppi di ragazzi. Anche i mass media parlano sempre più di baby gang quando riportano episodi di furti ed aggressioni attutati da gruppetti di adolescenti a danno dei loro coetanei.
Se si analizzano le caratteristiche di questi gruppi giovanili si scopre facilmente che, in realtà, non si tratta di bande. Infatti sono privi delle caratteristiche tipiche di una gang, come ad esempio una struttura gerarchica definita, regole di condotta, una buona coesione tra i membri ed il controllo del territorio. Quindi, anche se tra i giovani italiani la devianza del gruppo è molto frequente, non si può parlare, però, di vere e proprie gangs. Così come sono presenti in altri paesi come negli Stati Uniti. Il bullismo o il riunirsi di adolescenti in baby gang è, pertanto, la risultante di un insieme di azioni che spesso sono persistenti e mirano deliberatamente a fare del male e/o a danneggiare che ne rimane vittima.
Alcune azioni offensive avvengono attraverso l’uso delle parole, per esempio minacciando od ingiuriando; altre possono essere commesse ricorrendo alla forza o al contatto fisico: schiaffi, pugni, calci o spinte. In altri casi le azioni offensive possono essere condotte beffeggiando pesantemente qualcuno, escludendolo intenzionalmente dal proprio gruppo.
Per poter parlare di bullismo, o di baby gang, è necessario che vi sia un’asimmetria nella relazione.
Il bullismo può essere:
-diretto, quando si manifesta con attacchi relativamente aperti nei confronti della vittima;
-indiretto, quando si manifesta come una forma di isolamento sociale e una intenzionale esclusione del gruppo.
Gli atti di bullismo si manifestano con maggiore frequenza all’interno della scuola. Le sopraffazioni avvengono tra l’indifferenza dei coetanei e degli insegnanti, come se le percosse, gli insulti, i furti e le minacce fossero una normale componente del clima scolastico e come se la violenza fosse motivo di compiacimento.
Bullismo a scuola significa, quindi, colpi proibiti, taglieggiamenti, offese pesanti, soprusi individuali e raid di gruppo. Oltre a ciò è frequente l’isolamento fisico, la crudeltà psicologica.
Molte prepotenze sono individuali, mentre altre fanno parte di rituali di gruppo ma in ogni caso sottili legami si creano tra persecutori e vittime.
La personalità del “bullo”
La caratteristica più evidente del comportamento da bullo è chiaramente l’aggressività, rivolta verso i coetanei, ma anche verso i genitori e gli insegnanti.
I bulli hanno un forte bisogno di dominare gli altri e si dimostrano spesso impulsivi. Vantano spesso la loro superiorità, vera o presunta, arrabbiandosi facilmente e presentano una bassa tolleranza alla frustrazione. Manifestano, inoltre, grosse difficoltà nel rispettare le regole. Numerosi studi hanno evidenziato i fattori che sembrano essere alla base del comportamento aggressivo, quali:
il temperamento del bambino; la mancanza di calore e di coinvolgimento da parte delle persone che si prendono cura del bambino in tenera età; l’eccessiva permissività e tolleranza verso l’aggressività manifestata sin dalla più tenera età; il modello genitoriale all’interno della famiglia nella gestione del potere; l’uso eccessivo nella famiglia di punizioni fisiche come strumento per far rispettare le regole.
I bulli, per questo motivo, sviluppano un atteggiamento verso l’utilizzo di comportamenti violenti per raggiungere i propri scopi e mostrano una sovrastima di se stessi.
La personalità della vittima
Le vittime sono spesso ansiose ed insicure, hanno una scarsa autostima ed un’opinione negativa di sé e della propria situazione. Infatti manifestano particolari preoccupazioni riguardo al proprio corpo: hanno paura di farsi male, sono incapaci nelle attività di gioco o sportive, sono abitualmente non aggressivi e non prendono in giro i compagni, ma hanno difficoltà ad affermare se stessi nel gruppo dei coetanei.
Le vittime sono caratterizzate da un modello reattivo ansioso o sottomesso, associato ad una debolezza fisica, soprattutto se maschi, perché sembrano non possedere le abilità per affrontare la situazione o, nel caso in cui le possiedano, le utilizzano in maniera inefficace.
Le vittime possono essere passive o sottomesse, segnalano agli altri l’insicurezza, l’incapacità, l’impossibilità o la difficoltà di reagire di fronte agli insulti ricevuti; esse possono presentare una combinazione di modalità di reazioni ansiose che provocano una modalità combinata di risposte a loro volta aggressive.
Il modello del persecutore e quello della vittima rappresentano due modalità inadeguate, apprese dall’ambiente, di rapportarsi con gli altri.
Entrambi determinano effetti apparentemente adattivi nel breve periodo e per questo si rinforzano, ma a lungo termine producono disagio a se stessi e all’ambiente che li circonda. È importante intervenire precocemente sui giovani che presentano tali comportamenti, in quanto su queste basi si possono instaurare nel tempo veri e propri disturbi psicologici.
Il modello reattivo-ansioso (tipico della vittima) conduce ad evitare le situazioni che si considerino potenzialmente pericolose. Questo può creare un terreno fertile sul quale si possono sviluppare disturbi come fobie, depressioni, ecc.
Il modello reattivo-aggressivo (tipico del bullo) può creare una base sulla quale possono innestarsi disturbi quali atteggiamenti di devianza, comportamenti delinquenziali e comportamenti di dipendenza da alcool, droga, ecc.
Anche laddove non si manifestano vere e proprie patologie, i giovani che utilizzano modelli di comportamento reattivi inadeguati strutturano delle personalità che non sono in grado di adeguarsi in maniera coerente e proficua alle richieste dell’ambiente. Una personalità aggressiva svilupperà una modalità attraverso la quale cercherà di imporsi sempre sugli altri, vivendo le relazioni in una ricerca costante e crescente di conflittualità.
Queste particolari situazioni, se vissute per lungo tempo, possono portare i giovani a rimanere isolati dagli altri a causa dei loro comportamenti inadeguati, siano essi vittime o bulli.
In questa prospettiva è importante agire in maniera sollecita e adeguata nell’ambiente scolastico, cercando di far emergere i problemi che sempre più frequentemente portano i giovani a vivere queste situazioni di esclusione e isolamento; o, di riflesso, per paura, ad unirsi al gruppo dei bulli, costituendo, a volte anche senza rendersene conto, piccole gang giovanili.
L’intervento deve coinvolgere non solo i giovani, ma anche e soprattutto gli insegnanti e i genitori, fornendo loro adeguati strumenti per poter far emergere il fenomeno, saperlo definire, contenere, superare, condividendolo.
Uno degli strumenti a cui si è dato corso è stato elaborato dagli autori per portare nelle scuole un Quaderno di prevenzione su bullismo e baby gang. Il Quaderno di AXI (Magi Editore) e permette nel suo utilizzo di comprendere il fenomeno e dà informazioni semplici ma esaustive sulle personalità e i comportamenti dell’aggressore “bullo”, la vittima e le dinamiche del contesto scolastico. Il Quaderno si avvale di vignette che illustrano e spiegano i diversi concetti e le dinamiche del bullismo. Per esempio si spiega cos’è il bullismo, si fanno conoscere le sue manifestazioni, si indica che cosa fare per porre fine al circolo vizioso. Il libro è stato concepito per essere utilizzato, oltre che direttamente con gli alunni, anche con gli insegnanti e i genitori.
Conoscendo il problema si può, quindi, attivare nelle scuole una programmazione contro le prepotenze e promuovere interventi tesi a costruire una cultura del rispetto e della solidarietà tra gli alunni e tra alunni ed insegnanti.
Un intervento preventivo è rivolto a tutti gli alunni e non direttamente ai “bulli” e alle loro vittime. Per un cambiamento stabile e duraturo, è più efficace agire su tutta la comunità scolastica per promuovere nuove regole di convivenza, piuttosto che agire sul disturbo ormai conclamato.
Una delle principali cause delle frustrazioni alle origini dell’aggressione e degli atteggiamenti ostili nella scuola è il concetto della disuguaglianza che resta ancora alta e motivo di emarginazione. Questa disuguaglianza vissuta come ingiustizia costituisce una delle cause prioritarie delle frustrazioni scolastiche. Disuguaglianza che emerge in maniera molto evidente, non solo da un punto di vista estetico-economico (il ritorno a un grembiule uguale per tutti o a una divisa scolastica così come d’uso nei paesi anglosassoni risolverebbe tutte queste occasioni di tensione e di esclusione), ma è anche data dalla sempre maggior presenza di figli di stranieri e di emigrati nel nostro contesto sociale. Inoltre, a volte, anche i comportamenti degli insegnanti possono adottare inconsapevolmente modalità educative ‘aggressive’ che provocano danni psicologici o sofferenze negli studenti.
È importante sottolineare questo punto perché, come indicato in letteratura, è inefficace l’intervento psicologico individuale ma risulta necessario un interventi mirato sul contesto. Infatti il “bullo” non è motivato al cambiamento in quanto le sue azioni non sono percepite da lui come un problema, ma queste sono un problema soltanto per la vittima, gli insegnanti e il contesto in cui egli agisce. L’intervento diretto sulla vittima, pur efficace a fini individuali, non lo è per quanto riguarda la riduzione del fenomeno del “bullismo”: anche se quella vittima cesserà di essere tale il bullo ne cercherà presto un’altra nel medesimo contesto. Per questi ed altri motivi è necessario ed urgente, visto l’ampliarsi del fenomeno, attuare un programma di intervento di carattere preventivo e diretto al contesto “gruppo classe/scuola/genitori” ed è per questo che trova significato un intervento strutturato.
L’intervento deve essere strutturato per le seguenti finalità:
1. Acquisire consapevolezza
E’ possibile trattare e capire alcuni concetti strettamente legati alla comprensione dei fenomeni di violenza e bullismo (potere, oppressione, pregiudizio). Le storie possono fornire un importante contributo per capire le diverse forme di abuso di potere. In questi casi lo stimolo dato dal racconto diventa l’occasione per sollecitare una prima riflessione sul problema e per riportare poi la discussione a livello personale. Lo scopo è quello di favorire un’acquisizione di consapevolezza del problema, delle motivazioni che ne sono alla base e delle conseguenze che può generare.
2. Responsabilizzare i ragazzi
Gli alunni, elaborando le loro soluzioni, hanno modo di approfondire la natura del problema e vengono rafforzati i valori e gli atteggiamenti contro gli abusi e le prepotenze, attivando le capacità di analisi e di risoluzione da parte dei diretti interessati per realizzare interventi specifici contro il fenomeno; con il coinvolgimento attivo dei ragazzi nella risoluzione del problema, imparando a conoscere i persecutori e le vittime, i luoghi e i tempi.
3. Favorire l’interiorizzazione delle regole di buona convivenza scolastica
L’intervento permette un lavoro di coinvolgimento e sensibilizzazione di tutte le componenti della scuola: collegio docenti, insegnanti, genitori e alunni, favorendo l’attenzione alle dinamiche relazionali interne alla scuola e, conseguentemente, ad una buona convivenza scolastica mantenendo alto un senso condiviso di responsabilità.
4. Costruire solidarietà
Si fornisce supporto tra coetanei poiché dà una risposta all’esigenza di combattere la violenza e la sopraffazione e promuovere il rispetto e l’aiuto reciproco. Si andrà così ad acquisire la competenza dell’ascolto e del sostegno alla crescita e alla maturazione dei ragazzi. Questa competenza risulta un mezzo efficace per favorire la consapevolezza di sé, l’autostima, lo sviluppo della capacità di aiuto e di comprensione verso gli altri. Un’occasione di crescita per il gruppo classe stesso poiché, attraverso un maggiore dialogo ed una maggiore consapevolezza di pensieri, emozioni ed azioni, può diventare risorsa e sostegno per ciascun membro della scuola.
È inutile sottolineare che per rendere efficace e duraturo questo tipo di prevenzione è necessario che gli insegnanti, gli educatori e le famiglie collaborino, come modelli e come soggetti promotori di modalità adeguate di interazione, affinché l’esempio possa essere imitato, acquisito e diventare quindi uno stile di vita per i ragazzi.
Questa consapevolezza, responsabilità e solidarietà deve servire, inoltre, a far capire come la scuola rappresenti uno dei migliori contesti d’intervento per quello che riguarda la possibile educazione e sviluppo della persona per una migliore società futura.
fonte: “Link. Rivista scientifica di psicologia”